sabato 16 febbraio 2013

Radici



Quante probabilità ci sono, su un milione, di conoscere una conterranea della peggior specie a 600 km da casa proprio quando avevi deciso di mettere tra te e quella che ormai, per mancanza di vocaboli, continuavi a chiamare casa( ma solo per quello), tutti quei kilometri?

L’amore per la mia terra, l’attaccamento viscerale per l’odore che emanano i campi quando piove, persino l’incondizionato affetto per le anziane donne che resistono al tempo e alle loro sedioline di legno fuori dall’uscio di casa non sono stati sufficienti a inchiodarmi alla lingua di terra caldissima che mi allevata. Tutto rimane lì a pizzicare le corde un po’ scordate del ricordo, ma nulla ha avuto la meglio sul peso delle mie valige. Quel che mi ha aiutato, poi, a prepararle più in fretta è stata l’amara osservazione di quel muro invisibile che, per quanto lo si voglia negare, esiste e si erge sottile nella sua imponenza a tenere distanti due metà di paese e con esse due carovane di uomini, che hanno camminato davvero sotto soli diversi. E se la voglia di scavalcare quelle che chiamano appartenenze appare così evidente nelle ambizioni, nelle parole infiammate, nelle migrazioni verticali di massa, dietro a quel desiderio di aprirsi a questa Italia che corre impazzita rimane accovacciata un’eredità che non ci siamo scelti e non abbiamo pregato di avere: il peso delle generazioni del passato. Ieri ho cominciato a leggere la biografia di Marx e sebbene Marx continui a portarsi attaccato addosso il peso dirompente della sua persona, a poche pagine dall’inizio, una frase leggera per la sua inconfutabile verità ha arrestato per un attimo la mia lettura. Ne Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte scriveva: “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi”. Mi sono sorpresa dinanzi alla limpidità di un’asserzione così vera. Non veniamo dal nulla e non siamo mai solo figli di chi ci ha concepito, ma siamo imprescindibilmente figli della nostra terra e delle generazioni scomparse che ci hanno preceduto. Che incantevole constatazione eh? Ma non è poi così incantevole quando le generazioni scomparse ti ammanettano a chiusure che non vuoi.

Così accade che altrettante generazioni di viventi si illudano di avere un’ampiezza di prospettive che non li sfiora neanche e si ritrovano a scimmiottare atteggiamenti di competenza e padronanza come se volessero gridare ogni minuto ai quattro venti “Io ci so stare al mondo, sono libero, emancipato, sradicato e assolutamente in grado di accordarmi con ciò che il mondo vuole da me” credendo di ammantarsi di un’aura di splendore capace di ammaliare gli astanti, apprendisti cittadini del mondo.

Così è accaduto che la conterranea emancipata mi sia stata affibbiata, in terra felsinea, come tutor per uno stage che non mi è servito a nulla, se non ad illuminarmi su quanto sia ridicolo credersi emancipati quando in realtà ci si è solo sradicati al punto di arrivare a sostenere: “Dimentica quello che hai fatto fin ora perché qui non è come ”.

Io le valige le ho fatte e me le trascino dietro ovunque vada ma dentro non ci voglio conservare le cesoie che tagliano i legami ma la coscienza di non essere spuntata dal nulla.

Perché, alla fine, le radici restano attaccate sotto i piedi ed è con quelli che percorriamo il mondo.

4 commenti:

  1. Bellissimo il tuo blog, Chiara! Scrivi molto bene.

    Mi hai ricordato un detto inglese, che ti posso tagliare su misura: "You can take the girl out of Cerignola but you can't take Cerignola out of the girl."

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  2. "Perché, alla fine, le radici restano attaccate sotto i piedi ed è con quelli che percorriamo il mondo"....che brivido quando ho letto questa frase...

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  3. La mia vita a balze23 marzo 2013 alle ore 11:25

    Grazie Carla...

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